Prima della ventata modaiola, a Milano comunemente si consumavano in strada due cibi: la caldarroste e i panini.
Quelli con i peperoni, la cipolla e la salamella, inondati da una salsa colorata a scelta. Prima delle partite a san Siro erano dei veri e propri must.
Ora ci sono gli arrosticini, il fish & chips, le piade e i panzerotti e chi più ne ha più ne metta. Si chiamano street food, si mangiano con le mani, si vendono nei baracchini ambulanti, si è soliti mangiarli passeggiando.
E’ un boom. Per questo ci ho voluto capire di più di questo fenomeno planetario che mette tutti d’accordo, gourmet e debosciati, religiosi e novizi, chef e ambulanti fricchettoni.
Dopo aver partecipato e assaggiato allo “Street Food Parade” di domenica scorsa a Milano, ho inteso poche ma fondamentali cose.
Uno. “Street” fa rima con “fritt”. Dalle olive ascolane ai panzerotti pugliesi, dalle french fries alle panelle fino alle arancine (o arangine, o arancini) tutto viene immerso e trova nuova vita dopo un tuffo in un liquido color caramello, che bolle e - non dovrebbe accadere - a volte fuma. Olio. Non sempre la croccantezza è da manuale, né la conseguente leggerezza. Ma l’acquolina in bocca (il dott. Pavlov insegna) è garantita.
Due. Tanto fumo e tanto arrosto. Nel senso di piastre ustionanti, griglie, graticci arroventati da fiamme e braci, vapori e fumi che si diffondono inesorabili. Ciò che cade sopra questi ancestrali piani di cottura non sarà più lo stesso al termine dell’esperienza.
Il cibo si scalda, si colora, si scotta, si imbrunisce e a volte va anche oltre. E poi fuma, che nemmeno un treno a vapore di fine Ottocento.
Gli umori e i grassi delle pietanza, insieme all’amido disponibile, caramellizzano e si trasformano in qualcosa di misteriosamente, atavicamente irresistibile. Vedi a mo’ di esempio farinate, carni alla griglia, hamburger, piadine e via discorrendo.
Tre. Al dottore non far sapere cosa si mangia (in strada) dal rosticciere. Sì, perché è praticamente impossibile costituire un pasto di strada che non impenni colesterolo, pressione o trigliceridi. A cominciare dalle cotture, appena viste, che la fanno da padrone. E quindi alte temperature, qualche bruciatura, tanto sale, olio bollente, grassi e salse di accompagnamento. E, per i dolci, tanti zuccheri semplici che si celano dentro frittelle, bomboloni, cannoli e cassatine. Tutto buono, tutto potenzialmente a rischio coronarie.
Quattro. Mangia, prega, ama. Ovvero, dopo aver ingerito, ama chi ha preparato e prega che vada tutto bene dal punto di vista igienico. Ci sono baracchini ambulanti, strade affollate, contaminazioni incrociate tra il denaro manipolato, le strette di mano, i cartocci consegnati, gli utensili multiuso e il sudore che cola inesorabile dalla fronte di chi cucina, appiccicato ai fuochi. Tutto naif, tutto alla buona. Con la convinzione e la speranza che ciò che non ammazza, ingrassa.
Cinque. Pietanze dalle mille forme e sapori. Il numero delle proposte è ampio e potenzialmente in crescita. Cibi moderni tipo le spirali di patata fritte si affiancano, e contrastano, con quelli storici e tradizionali, dai panigacci al tortello alla lastra, dalle focacce sui testi al lampredotto fiorentino. Spesso il legame col territorio non è così netto, la provenienza degli ingredenti non è annodata a doppio filo ad una zona geografica come vorrebbe la tradizione, ma le rivisitazioni sono ben accette e le regole agricolo-commerciali non transigono. E comunque c’è davvero da sbizzarrirsi.
Concusioni. Come si dice(va) a Milano per indicare qualcosa che funzionava nonostante non lo si potesse spiegare alla perfezione, nonostante una particolare situazione non avesse tutti gli elementi favorevoli alla garanzia di successo, beh, se la va alura la g’ha i gamb. E visti i chilometri che macinano i furgonici ambulanti di città in città, altro che gambe!